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Alla 100km del Sahara con Sabine Borrè

Eccoci arrivati a Djerba, conosciuta anche come "la douce", che tuttavia non ci riserva un'accoglienza molto dolce. Infatti, avevamo appena percorso qualche chilometro, che la "dolce" ci regala una bella tempesta di sabbia. Uno spettacolo affascinante; per fortuna ci troviamo in pullman e non ancora in gara. A Tataouine, dove passeremo la nostra prima notte, troviamo addirittura una leggera pioggerella.

Domenica 4 marzo 2001 - Campo di Chenini

La mattinata è dedicata al turismo, prendiamo contatto con l'ambiente che sarà nostro habitat durante la gara. In pullman giungiamo al primo accampamento di Chenini, dove familiarizziamo con le tende berbere, ci sottoponiamo al controllo degli zaini e ritiriamo i pettorali. La valigia di Samuele, rimasta a Fiumicino, tuttora non è stata ritrovata. Ci attiviamo tutti per mettergli a disposizione il materiale che ci avanza. Personalmente ammiro moltissimo la calma con cui Samuele riesce ad affrontare questa situazione di disagio. Per fortuna le scarpe da corsa le aveva ai piedi durante il viaggio aereo.

Rispetto alle prime ore del mattino la temperatura è salita notevolmente e ci diamo tutti da fare per sistemarci nelle tende. Sono un'amante dell'aria aperta e riesco ad accaparrarmi una branda proprio sul lato esterno della tenda. Di sera saliamo tutti in paese dove gli organizzatori hanno preparato una cena italiana in una simpaticissima locanda locale. Rientrati all'accampamento ci aspetta la lieta sorpresa di uno spettacolo di balli folkloristici. Dopo essermi sistemata in tenda, ho ben presto modo di pentirmi della posizione strategica del mio giaciglio. Che freddo! Per fortuna mi sono portata un maglione di lana e un sottocasco da motociclista per la testa. Riesco comunque a dormire benissimo anche se, a tratti, mi sveglio e penso preoccupata alle fatiche che ci aspettano nei prossimi quattro giorni.

Lunedì 5 marzo 2001 - Campo di Chenini

Ormai ci siamo. Stiamo per affrontare la prima tappa della centochilometri. Confesso che tuttora non ho capito perché (riduttivamente) si chiamino "100km" quando invece sono 126. Adriano Zito, patron dell'organizzazione sportiva e race director, ci spiega quali saranno le caratteristiche della tappa, quali bellezze e quali difficoltà incontreremo. La particolarità di questa tappa è quella di correre alcuni chilometri lungo una mulattiera. Mezz'ora prima della partenza Fulvio ci chiama per una seduta di stretching.

Dopo il via si parte subito in salita. Costeggiamo il villaggio per arrivare sulla famigerata mulattiera. Mi dico che il duro allenamento al quale mi sono sottoposta su fondi simili porterà i suoi frutti, ma ben presto mi debbo rendere conto che non tutte le mulattiere sono uguali. A un certo punto vedo spuntare dietro una collina Gennaro, inossidabile corridore napoletano, che dice di essersi perso. Mi dice, stizzito: "Qui hanno voluto risparmiare sulla vernice", la prima delle innumerevoli battute divertenti di questo veterano. Non posso condividere la sua opinione, perfino io, che mi perdo anche dentro Roma: questa volta, infatti, sono riuscita a non sbagliare percorso. Dopo essere tornato sulla "retta via" anche Gennaro se ne va... Il paesaggio predesertico mi affascina, sono felice di essere venuta qui, ma è dura correre per chilometri e chilometri da sola e fare da fanalino di coda. Unica mia compagnia il vento e le jeep che ogni tanto passano con discrezione e mi rassicurano: non sono del tutto abbandonata a me stessa. Invidio gli organizzatori che viaggiano in jeep comodamente seduti. E se chiedessi di farmi salire? Ma mi richiamo all'ordine. Niente passaggi in jeep. Dopo aver percorso altri chilometri, ancora lo scoramento si fa sentire. Pur essendo piuttosto stonata, mi metto a cantare, tanto non mi sente nessuno. Cantare mi aiuta moltissimo, scaccia fatica e solitudine. Bene o male, e soprattutto senza vesciche, dopo ventiquattro chilometri giungo finalmente a destinazione. Sono commossa che quasi tutti i compagni mi aspettino al traguardo. Qualcuno mi porta del tè caldo zuccherato e mi butto subito in tenda. Per fortuna ci aspetta un abbondante piatto di pastasciutta. Il dopocena viene allietato dai tamburi dei cammellieri, dal fuoco e dalla proiezione della videocassetta della prima tappa. Così mi riferiscono i compagni di tenda, perché io, finito di mangiare, mi stendo subito nel sacco a pelo per recuperare le forze per il giorno dopo.

Martedì 6 marzo 2001 - Campo di Laaraj (temperatura massima oltre 39 gradi)

La sveglia ufficiale è prevista alle 7.30 ma, come di consuetudine, mi sveglio già alle 6. Che freddo, mi ci vorrebbero dei guanti, mi trasferisco dietro una duna per la toilette mattutina. Tornata in tenda, frugo nella mia valigia per trovare le cose necessarie per la giornata e per la tappa. Ma come, non si trova più nulla, eppure ieri sera avevo ragionato tanto bene su quel che mi sarebbe servito la mattina dopo. Mi consolo un po' quando mi rendo conto che anche i compagni più esperti si trovano ad affrontare lo stesso problema. Ma anche questo spasmodico frugare nelle valigie non sminuisce la simpatica allegria che regna tra di noi. La mia più grande preoccupazione è trovare gli attrezzi per la prima colazione. Altro dilemma, continuare con le scarpe del giorno prima oppure sostituirle con l'altro paio di ricambio. Una decisione sbagliata può rivelarsi fatale. Roberto sostiene che "scarpa vincente non si cambia". Decido di dargli retta. Non appena finita la prima colazione vengono smontate le tende, dobbiamo consegnare le borse, rimaniamo solo con quanto ci serve per la gara. Ad ingannare l'attesa, anche questa volta, ci sono Adriano, che ci spiega le caratteristiche della tappa del giorno, e Fulvio con lo stretching. Mi siedo in attesa della partenza. Cerco di trovare dentro di me la determinazione necessaria e un metodo per scacciare le paure. Penso che dopo la tappa del mattino (che alla mia velocità si protrarrà sicuramente fino al pomeriggio) dovremo affrontare anche la tappa notturna al cronometro e che io (se le cose vanno come temo) dovrò partire per prima.

Decido di affrontare una cosa alla volta. Quindi mi metto in marcia e comincio a macinare chilometri. Questa tappa è lunga venticinque chilometri. Durante i primi chilometri intravedo sempre in lontananza i dromedari con in groppa le nostre tende. Poi loro prendono una pista più corta ed io rimango sola. Ho quindi modo di osservare il deserto che mi circonda con la sua muta e immobile vastità. Tuttavia, sembra avere un messaggio per me. A lui, che sta lì da millenni, sono completamente indifferente, non mi è ostile ma nemmeno amichevole. Non cede nulla ma non mi nega nemmeno il dono di essere là. Cerco di intavolare un dialogo virtuale con il deserto che ovviamente diventa un monologo da parte mia. Quindi, dopo un po', riprendo i miei canti e giungo al campo verso le quattro del pomeriggio. Vengo subito a sapere dai compagni che mi aspettano che la tappa serale di dieci chilometri al cronometro è stata anticipata alle 20.00. Oddio, mi rimangono solo quattro ore per recuperare le mie forze. Mi fiondo diritta nella tenda dove rimango a riposarmi in attesa del pasta party. Ah, io sono ghiotta di pasta, almeno questa volta non debbo preoccuparmi delle calorie, gli chef dell'organizzazione sono bravissimi. L'idea della goduria culinaria riesce a tirarmi su mentre cerco in tutte le maniere di scacciare dalla mia mente il pensiero della tappa notturna al cronometro.

Con cura mi vesto per la sera (no, non per un appuntamento mondano) e poi, zoppicando, mi presento sulla riga di partenza. Non so ancora bene come potrò fare anche un solo altro passo, figuriamoci affrontare una gara al cronometro. I giudici di gara cominciano a fare il conto alla rovescia, mi viene da ridere per tanta formalità per me, che sono l'ultima piazzata, ma ci sono le regole che vanno rispettate per tutti. Mi indicano la direzione in cui partire, le balise luminose sulle quali orientarmi lungo il percorso. Vanificatasi anche la mia ultima speranza dell'apparizione improvvisa di una tempesta di sabbia, che magari avrebbe fatto annullare la tappa, non mi resta altro che partire. E succede subito qualche cosa di veramente strano. Improvvisamente, mi sembra di avere le ali ai piedi. Non capisco dove trovo ancora tutta questa energia. Sarà perché corriamo senza il solito camelback? Riesco perfino a godermi lo spettacolo stupendo del paesaggio desertico illuminato dalla fredda luce lunare. I compagni, che sempre più numerosi mi sorpassano, mi incitano con qualche battuta gentile e spiritosa. Qualcuno - per fortuna al buio non riesco a vedere chi è - mi incoraggia: "Forza signora", il che mi infastidisce talmente che cerco di aumentare ancora la mia andatura. Dopo un po', un altro concorrente mi fa: "Dai, che siamo quasi arrivati". Non mi sembra possibile, invece è vero, si intravedono già le luci dell'accampamento, ho impiegato un'ora e ventidue minuti (prego i lettori di non ridere!): date le circostanze, per me è un ottimo risultato, mi sento in gran forma e pronta per i trentacinque chilometri dell'indomani.

Mercoledì 7 marzo 2001 - Campo di Aouinet Essbat (temperatura massima 43 gradi)

Durante la notte dormo malissimo, come mi capita sempre quando corro la sera. Ecco apparire, inesorabili, i primi albori del giorno più lungo. Tuttavia, prima di essere pronta per la partenza della tappa di trentacinque chilometri mi tocca affrontare il solito "ordine confuso" nella mia valigia. La fatica si fa sentire anche a livello mentale. Perfino Roberto, uomo di notevole cultura e di solito dal linguaggio ineccepibile, comincia a parlare sgrammaticato. Ma tutto ciò non fa che aumentare l'allegria che regna dentro e fuori delle tende. Roberto afferma di non essere più interessato a classificarsi bene dopo aver ottenuto un risultato strabiliante nella prova notturna al cronometro e quindi decide di accompagnarmi per il resto della gara. Debbo lottare un po' con me stessa, posso accettare una gentilezza del genere? Sarà vero quel che dice, oppure vuole solo aiutarmi a smentire coloro che, a casa, avevano già scommesso che non sarei riuscita a portare a termine questa impresa davvero ardua? Il deserto insegna anche l'umiltà e quindi decido di accettare.

Lascio a Roberto il compito di fare l'andatura per tutta la tappa, trentacinque chilometri sono tanti, sono costretta a curarmi le vesciche ad ogni ristoro mentre la temperatura, senza pietà, sale sempre di più. Per soffrire meno il caldo mi bagno spesso il cappello e la testa. Ad un certo punto comincio a sentire abbaiare dei cani. Abbaiano sempre più forte. Sto per chiedere a Roberto se riesce a scorgerli da qualche parte. Desisto nel timore che, ove lui né li sentisse né li vedesse, potrebbe farmi ritirare dalla gara. Dopo aver percorso altri chilometri "di fuoco", ecco che vedo venirci incontro, correndo, un uomo nudo. Un'allucinazione, questa volta visiva? Comincio a temere per la mia lucidità. Eppure è vero, è Fulvio, il nostro preparatore, vestito solo di un costume da bagno molto succinto, che ci raggiunge per accompagnarci per un po' e per sollevarci lo spirito. Poi se ne va per ritornare nella jeep, beato lui!

Maciniamo altri chilometri. Uno dopo l'altro, non finiscono mai. Meglio non avanzare calcoli su quanti ce ne saranno rimasti. Diventa perfino troppo faticoso pensare. Me la prendo con il sole, ma perché resti sempre così alto, non potresti calare un po' e bruciare di meno? A un certo punto, Roberto, da perfetto gentiluomo, si offre addirittura di portare il mio zaino. Devo essere in uno stato pietoso, pensavo che non si notasse. Ma sono ancora abbastanza lucida per rifiutare decisa: "Giammai, piuttosto mi uccido" (leggasi: mi ritiro). Incontriamo una jeep dell'organizzazione e veniamo informati che per l'ultimo ristoro mancano circa quattro chilometri. Ma quanto possono essere lunghi... Con Roberto decidiamo che ci fermeremo un po' più a lungo, per riprendere bene le forze prima di affrontare l'ultima frazione. Giunti al ristoro veniamo informati che un concorrente si è dovuto ritirare e che un altro è dovuto salire su una jeep per poi riprendere la gara. Arriviamo all'accampamento verso le 7 di sera. Sono stremata e felice che sia finito il giorno più lungo. C'è un abbeveratoio di cammelli dove possiamo finalmente fare un bagno vero. Nonostante le vesciche riesco ad attraversare l'accampamento e a trascinarmi fino alle vasche.

Dopo il bagno, lasciando a parte il mio orgoglio di ormai provetta "curatrice di vesciche", mi vedo costretta a ricorrere all'aiuto del nostro medico. C'è già una discreta fila davanti alla sua postazione. Durante la medicazione sento come se le forze mi venissero a mancare. Per timore che mi costringano al ritiro, cerco disperatamente di fare finta di nulla, ma non ci riesco. Il medico mi rassicura che la cosa non è affatto grave e, dopo qualche esercizio di respirazione, mi riprendo subito. Un abbondante piatto di pasta per cena fa il resto. Roberto mi dice: "Ti immagini se dovessimo prepararci la cena da soli, come si usa nelle gare 'in autosufficienza'"? Non, non ci voglio pensare proprio, credo che morirei per inedia.

Dopo essermi coricata per la notte, dalla nostra tenda osservo i compagni che, zoppicando, si trascinano da un punto all'altro dell'accampamento. Più che in un campo tenda di ultramaratoneti, mi sembra di trovarmi nella sala di attesa di un ambulatorio ortopedico. Ho l'impressione che ognuno di noi, chi più e chi meno, sia piuttosto provato. Nonostante le vesciche e i polpacci doloranti ho fiducia nelle mie capacità di resistenza. Ormai manca una sola tappa. Decido di portarla a termine ad ogni costo.

Giovedì 7 marzo 2001 - Verso l'oasi di Ksar Ghilane (temperatura massima 48 gradi)

La solita abbondante prima colazione precede l'ultima tappa. Faccio fatica a camminare, sono ormai zoppa, mi fanno tanto male le vesciche, ma lo spirito è indomito e ottimista. Mi rallegra la notizia che la partenza è stata anticipata alle 9.30. Adriano ci illustra le caratteristiche dell'ultima tappa, gli ultimi quindici chilometri saranno di "deserto vero", cioè sabbia e dune con un vecchio fortino di origine romana arroccato su una collina. Alcuni di noi sfoggiano ghette di vari modelli e colori. Mi viene un ripensamento, e se avessi fatto male di non portare le mie? Prima della partenza Tobias, arrivato poi vincitore alla gara, mi abbraccia dicendomi: "Non ti preoccupare, qui ormai si va avanti solo ad adrenalina". Se lo dice lui...

Partiamo di buona lena, tutti lungo una pista puntando dritti verso l'erg. Trovo per terra un cespuglio secco bellissimo. Dico a Roberto che mi sarebbe piaciuto portarmelo a casa per farne un ikebana. Roberto mi corregge dicendo che si pronuncia ikebanà e comincia con una lunga lezione sulla pronuncia giapponese, sulle caratteristiche di quella lingua e della sua calligrafia. Sono talmente felice e concentrata ad ascoltarlo che non sento alcuna fatica. Ma, all'improvviso, ci vediamo venire incontro un concorrente. È Giuseppone. Gli chiediamo cosa succede. Lui dice che torna indietro perché tutti abbiamo sbagliato strada. Avverto Roberto: "Deve essere impazzito, quando incontriamo una jeep dell'organizzazione dobbiamo farlo ritirare". Invece ben presto ci rendiamo conto che aveva ragione. Ci viene comunicata la triste verità. Abbiamo tutti sbagliato strada. Ci fanno salire sulle jeep e ci portano fino al punto in cui abbiamo sbagliato. Abbiamo fatto parecchi chilometri in più, del tutto inutilmente. Siamo disfatti. Ma come è potuto succedere? Per ironia della sorte, proprio nel punto dove avremmo dovuto girare a destra, Roberto mi aveva indicato un cartello con scritta "Cafè de la source", ma chi guarda i cartelli purtroppo non guarda per terra e quindi non ci siamo accorti dei segni blu. Dobbiamo aspettare a lungo, in pieno sole, finché tutti i concorrenti - quelli più forti, cioè quelli che hanno corso più lontano in direzione sbagliata - siano ripescati. Un'attesa piena di sgomento e di rabbia, di frustrazione e di senso d'impotenza. Per un attimo penso perfino a ritirarmi, ma no, non posso farlo, che figura farei, con "soli" venticinque chilometri che mi separano dal traguardo finale. E poi voglio ad ogni costo la maglietta di "finisher". Mi aggrappo anche a questo per automotivarmi.

Infine, qualcuno osserva saggiamente che la rabbia fa solo sprecare energie, non serve, e quindi via, puntiamo verso il traguardo. Andiamo, trotterelliamo, corriamo, camminiamo. Nelle ore centrali della giornata la temperatura sale a 48 °C. Dopo il primo ristoro mi comincia a girare la testa, mi sembra che il paesaggio si stia muovendo intorno a me. Che faccio, sarà grave? Non posso mica ritirarmi ora. E se mi mangiassi una barretta energetica? L'idea si rivela ottima, mi sento subito meglio. E riprendo il mio cammino aumentando il ritmo per raggiungere Roberto. Mi dico che l'unica cosa che ormai conta è andare avanti, e avanti, sempre avanti. Il fedele amico Roberto, costretto a portare guanti bianchi a causa di un eritema solare alle mani, continua a fare il ritmo di gara. Questa volta decidiamo che è meglio tacere per non sprecare inutilmente le nostre energie. Per tirarmi su di morale mi dico che poche donne hanno la fortuna di essere accompagnate nel deserto da un cavaliere con i guanti bianchi. Quindi, perché lamentarmi?

La pista pietrosa viene spesso interrotta da tratti sabbiosi sempre più lunghi. Scorgiamo le prime dune ricoperte qua e là da piccoli cespugli fioriti. Ogni tanto incontriamo delle lucertole che sulla sabbia hanno assunto un colore ocra. Arriviamo all'ultimo punto di ristoro prima di addentrarci nel deserto vero e proprio. È la prima volta che incontro quasi una folla di altri concorrenti ad un bivacco e ci scambiamo battute scherzose e incoraggianti. Il fondo su cui correre sarà sabbioso e quindi morbido fino al traguardo per cui prevedo che non presenterà pericoli di scossoni per la mia spina dorsale. Mi nascondo dietro il rudere al quale ci siamo appoggiati per riposarci meglio e mi tolgo il busto ortopedico. Dentro di me sento sorgere una feroce determinazione. Ora inizia il tratto di corsa "ad orientamento". La direzione è quella verso il forte che appare e sparisce a seconda se ci troviamo in cima ad una duna oppure in qualche gola. Intanto le scarpe si riempiono di sabbia. Con il poco di lucidità che mi resta penso che, una volta che le scarpe si fossero riempite di sabbia, il problema si sarebbe risolto. Errore. Sento le dita dei miei piedi piegarsi sempre più indietro come per fare posto ad altra sabbia. Decido di aspettare fino al forte per svuotare le scarpe. Ormai non mi fermeranno più né dune, né la ripida salita verso il fortino, né i cammelli con in groppa orde di turisti francesi. Avanzo, avanzo, intravedo già il traguardo. Paola, Roberto e Giacomo si fermano ancora per fare delle foto. Poi scendono anche loro e, vedendomi accelerare, mi chiamano, mi prendono in giro, sospettano che io voglia arrivare al traguardo finale prima di loro. Ma no, io voglio solo arrivare più velocemente possibile; prima del traguardo mi fermerò ad aspettarli. E così è stato, abbiamo tagliato il traguardo tutti insieme, noi quattro "sopravvissuti" dell'ultramaratona di Boa Vista. Grandi festeggiamenti da parte dei compagni arrivati prima di noi. Vengono scattate tante foto ricordo di questo momento di indimenticabile trionfo.

All'oasi mi sembra tanto strano vedere di nuovo gente "normale" che prende delle bibite al bar, che fa acquisti nelle piccole botteghe turistiche. Troviamo un grande pozzo di acqua minerale calda. Che goduria. Dopo aver passato mezz'ora a mollo la mia fatica sembra svanita. Una festosa cena a base di couscous fa il resto. La notte dormiamo in tende chiuse su veri lettini con tanto di materasso e lenzuola. Il posto si chiama "Paradiso", ma io rimpiango già le nostre tende berbere, le stelle, il silenzio, i nostri beduini con i loro cammelli e i fuochi serali.

Venerdì 9 marzo 2001 - Viaggio verso Djerba

Trasferimento da Ksar Ghilane a Djerba. Come sembra diverso il deserto visto dalle jeep. Man mano il paesaggio si fa sempre più monotono. Mi riaffiorano nella mente le immagini dei giorni trascorsi percorrendo il deserto e, allo stesso tempo, anche le domande alle quali non ho trovato risposta. Cosa risponderò quando mi chiederanno, come sempre, perché l'ho fatto, che cosa cerco di dimostrare. Improvvisamente tutto mi diventa chiaro. Nulla, non voglio e non debbo dimostrare nulla. Mi sono imbarcata in un'avventura davvero entusiasmante e sono riuscita ad arrivare fin in fondo. Sono riuscita a non cedere alla fatica, al dolore alla tentazione dell'abbandono e soprattutto, mi sono divertita moltissimo. Mi ritorna in mente come una sera, in uno degli accampamenti io avevo intavolato un discorso sulla "normalità", qualcuno aveva osservato: qui tra noi di normale non troverai nessuno. Ed è così, tutta questa nostra impresa non sarebbe stata possibile senza un pizzico di sana follia e senza la ferma convizione di ognuno di noi che avremmo potuto farcela. Sento come già mi comincia a mancare il contatto con la sabbia sotto i piedi e perfino la fatica della corsa. Mi consolo con l'idea della piscina a Djerba. Purtroppo, arrivati all'isola, il tempo è cambiato e fa talmente fresco che un tuffo in piscina sarebbe davvero azzardato. Quindi mi trascino zoppicando verso il posto di telefono pubblico per avvertire figli ed amici di essere sopravvissuta sana e salva. Purtroppo trovo quasi ovunque segreterie telefoniche. Il nuovo contatto con il mondo civile comincia a piacermi sempre di meno. Nota positiva invece il ritrovamento della valigia di Samuele. Neanche la spaziosa stanza d'albergo, con tanto di bagno e letto comodo, riesce ad alleviare il mio senso di smarrimento. Continuo a rimpiangere il mio sacco a pelo, la simpatica compagnia e la scherzosa allegria dei compagni.

Per fortuna, dopo la cena di addio e la riuscitissima cerimonia della premiazione, la notte prima della nostra partenza per l'Italia è diventata estremamente corta.

Sabato 10 marzo 2001 - Rientro in Italia

Ci alziamo tutti prestissimo. Io rimango senza prima colazione perché a causa di dolori vari non riesco nemmeno a salire le scale per il ristorante. Dopo un breve scalo intermedio allo splendido aeroporto di Tunisi la nostra avventura si conclude a Fiumicino con saluti ed abbracci. Reduci della meravigliosa esperienza vissuta tutti insieme nel grandioso deserto del Sahara, ci congediamo non senza un pizzico di rimpianto. E ora, che faremo? Quali nuove avventure sempre più audaci ci riserverà il futuro?



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