Alla Jordan Desert Cup con Rino Fumagalli
La "Jordan Desert Cup" è una gara fantastica, si tiene da tre anni nel deserto giordano ed ha la peculiarità di essere una corsa a piedi non stop di 168 chilometri in autosufficienza alimentare: tutto ciò che serve al concorrente è contenuto nel suo zaino, a parte l'acqua che viene distribuita ai check point ogni tredici chilometri. Da Petra a Wadi Rum in un colpo solo, attraverso uno dei più bei deserti del mondo.
Ne parlavamo già ad aprile Simone Musazzi ed io, alla fine della "Marathon des Sables" in Marocco a cui avevamo partecipato entrambi: come quando appena arrivati in cima ad una montagna, magari conquistata con sofferenza, ci si butta già in altri progetti più difficili e ambiziosi.
Eccoci infatti martedì 6 novembre a Petra, allineati assieme ad altri 237 concorrenti provenienti da venti nazioni sulla linea di partenza di questa corsa già diventata mito. Riconosco molti volti, inglesi, francesi e naturalmente italiani che avevo già visto ad aprile in Marocco e che rivedo qui con lo stesso sguardo e la stessa voglia di chi correrebbe sempre pur di non stare fermo mai nel posto in cui è tutti i giorni.
Ore 8:30, si parte. Patrick Bauer, il race director spara il colpo di pistola, stringo la mano a Simone, "Forza e onore", recitiamo insieme e via ognuno per il proprio viaggio. Eh si, questa è una corsa per lupi solitari, per gente che ama la fatica, che mette in gioco forza, anima e testa, non ha paura di soffrire e sa che non c'è nessuna ricompensa se non l'averlo fatto.
Si corre da subito, la voglia è tanta e Petra è bellissima, sembra di correre dentro un film di Indiana Jones; è subito salita, lo sarà per i primi quaranta chilometri, ma il serbatoio è ancora pieno cosi come è tanta la voglia di dimostrare a se stessi e agli altri che mesi di allenamento non sono passati invano. Il paesaggio mi riempie gli occhi, il cuore, la testa, sono in mezzo alla gara, chiedo di Simone al terzo check point, mi dicono che è in sedicesima posizione con i migliori.
Sono le 23:00 e ho percorso settantaquattro chilometri. Decido di stendermi tre ore e di mangiare qualche Powerbar in pace al check point numero 6: mi infilo nel sacco a pelo e osservo la gente che arriva, nessuna esultanza, solo lo sguardo fiero di chi partecipa ad una avventura umana fantastica.
Riparto alle tre di notte, fa freddo e togliersi dal sacco a pelo è una cosa dura. Riparto insieme a due concorrenti italiani con cui trascorrerò ventiquattro ore di viaggio in questo deserto sempre più immenso che riesce continuamente a stupirmi e a cambiare colore e della cui sabbia mi svuoto le scarpe in continuazione.
Trascorre ancora un giorno di corsa e camminata alternata, la benzina comincia a calare, Simone è già arrivato e io sono a due terzi della gara, sono le nove di sera mi fermo ancora tre ore a dormire, sono al centotrentaduesimo chilometro, il morale è alto le mie gambe un po' di legno... Uso come cuscino il mio zaino, mi guardo intorno e vedo tanti concorrenti stesi accanto a me. Nessuno parla, tutti si guardano intorno e aspettano che le energie ritornino... incrocio lo sguardo di un concorrente inglese ci sorridiamo senza parlare, non ne sentiamo il bisogno: per questa notte siamo fratelli e le emozioni che condividiamo sono le stesse perché in questo angolo di mondo nessuno ci ha obbligati a venire.
È l'una di notte, riparto e sono da solo, corro e cammino, la luce della mia lampada frontale è tutto il mio mondo conosciuto, mi resta da percorrere l'ultima maratona delle quattro di cui questa gara è idealmente composta.
Arriva l'alba in un deserto rosso fuoco e arriva l'ultimo check point, cammino incontro alla gloria che è solo e tutta mia, vedo il traguardo, lo supero, mi mettono la medaglia al collo, riesco perfino ad emozionarmi un secondo, poi mi tolgo le scarpe mi siedo sotto ad una tenda e aspetto. Mi passano nella mente in un secondo cinquanta ore di gara.
Fotografia di Francesco Berlucchi
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