Alla Ultra Mirage El Djerid 100km con Michele Torri
Scrivo dopo un paio di settimane dall'evento e lo ripenso, a freddo forse, e sicuramente dopo aver vissuto il post-evento a pieno e in tutte le sue fasi.
La normalità per la maggior parte di noi è il ritorno all'ufficio, alla fabbrica o al negozio. Insomma al lavoro. E il ritorno è forse un po' parte dell'evento. Così come lo è la preparazione. Ecco come voglio raccontare la mia esperienza alla "Ultra Mirage El Djerid 100km": un percorso che inizia dalla preparazione, da un fisico mai stato così temprato e allo stesso tempo provato, che passa attraverso la gara, dura e selvaggia, e termina con il post-gara e un ritorno alla normalità. Ma sarà davvero quella la normalità?
Mi sono avvicinato al mondo dello sport di resistenza passando per il triathlon e gli Ironman. Un avvicendamento attraverso due Ironman 70.3 nel 2019 ma ho sempre saputo che tra nuoto, ciclismo e corsa, è proprio quest'ultima la mia preferita.
Un gesto primitivo e un imprinting automatico che non ha bisogno di un mezzo esterno, è tutto nelle tue mani o meglio gambe. E le ultramaratone sono questo, semplicemente questo. Correre nel deserto lo è ancora di più: un gesto rude e primitivo ripetuto fino allo stremo in un ambiente che non è stato creato per l'uomo. Avverso.
Ho trovato questo. Una metafora che può essere facilmente traslata nella vita quotidiana. Quante volte siamo chiamati nel quotidiano a spingere controvoglia, a non mollare e addirittura a non fermarci anche quando a chiederlo sono la testa e il corpo stesso? Tuttavia cambiando prospettiva, per quanto possa essere difficile quel momento (o quella corsa) non sono nient'altro che una minuscola parentesi di qualche ora in una vita che dura decenni. Questo è lo spirito che alleno e allo stesso tempo il motivo per cui una centochilometri nel deserto potrebbe rappresentare la normalità tanto quanto la routine a cui siamo abituati.
Ho corso la "Ultra Mirage El Djerid 100km" solo dopo due settimane da una ultramaratona trail da sessanta chilometri con tremilacinquecento metri di dislivello ma nonostante ciò sono riuscito a recuperare forma fisica e psicologica adeguata per la gara. Mi sono posizionato in diciannovesima posizione su centoventidue arrivati ed è un grande risultato personale essendo la seconda ultramaratona (la prima solo due settimane precedenti) e soprattutto la mia prima ultramaratona di cento chilometri. Quel diciannovesimo posto però rappresenta almeno due facce della stessa medaglia: tutta la rabbia scaricata durante l'allenamento, che è durato mesi e che si è svolto quasi esclusivamente su un tappeto a causa delle restrizioni imposte dalle misure di quarantena anti-Covid italiane, e dagli errori banali che ho commesso per aver sottovalutato il deserto.
Sono vegano da quasi due anni. L'alimentazione è una passione al pari di quella per la corsa. Allora, sentendomi forte di ciò, ho deciso di affrontare la gara in autosufficienza. Non ho nemmeno approfittato della possibilità di consegnare il proprio sacco/frigo ristoro alla partenza per usufruirne al cinquantesimo chilometro, al check point di metà gara. L'unico appoggio che avevo era l'acqua che ogni venti chilometri era disponibile ai punti di idratazione.
Al trentacinquesimo chilometro ero in quinta posizione e ho mantenuto fino circa al sessantacinquesimo. Correvo con un ragazzo polacco ed un tedesco che poi sono arrivati quinto e ottavo. Ho passato il cinquantesimo chilometro senza fermarmi, con l'applauso degli organizzatori. E poi? E poi al sessantacinquesimo chilometro il buio. Avevo sottovalutato l'importanza di "rinfrescarsi" e di mangiare cibo e specialmente zuccheri freschi. Ho sbagliato proprio lì, dove mi sentivo sicuro. Ed ecco che intorno al sessantacinquesimo chilometro è arrivato il buio. Sono stato male e almeno due volte mi sono coricato pensando di perdere i sensi. Girava tutto intorno! Non potevo immaginare gli effetti della disidratazione, causati dalla scarsa quantità di acqua ingerita ma anche dalla temperatura stessa dell'acqua servita. Ore sotto il sole del deserto a quaranta gradi senza un minimo refrigerio.
Mi hanno superato molti atleti ma il peggio è stato dubitare dell'effettiva possibilità di tagliare il traguardo. Uno stato psicologico al quale ci si può opporre solo con le proprie forze. Ce l'ho messa tutta.
Il deserto ti accoglie se sei preparato ed organizzato. Fino al sessantacinquesimo chilometro sono stato sicuro di me stesso. Ma è capace anche di stremarti e di spogliarti di ogni forza di volontà. Come la montagna e come tanti altri ambienti estremi.
Il ritorno è avvenuto a pieno regime, già col telefono che squillava per lavoro il giorno dopo. Penso che sia quella normalità il vero scopo per cui ci si allena e si cercano sfide simili. La sensazione di potercela fare e di essere pronti e determinati ad affrontare sfide difficili.
Grazie a queste due gare potrò avere accesso alla "Courmayeur-Champex-Chamonix", prova dell'"Ultra-Trail du Mont-Blanc" del prossimo anno. E correre nel deserto mi è piaciuto così tanto che sicuramente ci tornerò nel 2021. Stessa gara, stessa tenacia ma molta più esperienza.
Le mie sincere congratulazioni all'organizzazione della "Ultra Mirage El Djerid 100km", professionali e impeccabili. Grazie a voi per avermi dato la possibilità di raccontare la mia esperienza e un abbraccio a tutti gli ultramaratoneti (nella corsa e nella vita).
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